Sono trascorsi settanta anni dalla prima celebrazione in Italia della Giornata internazionale della donna, ripresa postbellica di una ricorrenza che aveva preso consistenza nel primo decennio del Novecento attorno all’attivo protagonismo delle lavoratrici statunitensi e venne sancita nel 1910 dalla Conferenza delle donne socialiste di Copenaghen.
L’8 marzo 1946, per iniziativa dell’Unione Donne italiane iniziava così la tradizione di celebrare con un giorno di rivendicazione e di festa il ruolo femminile nel lavoro, nella società e nella famiglia. Già nella primavera 1945 si erano svolte manifestazioni femminili nelle zone liberate dell’Italia centro-settentrionale, negli stessi giorni in cui si gettavano le basi per la ricostituzione degli istituti democratici soppressi dalla guerra: sindacati, partiti politici organizzazioni solidaristiche ed economiche con priorità assegnate alla soluzione dei due problemi più urgenti, disoccupazione e razionamento. Nella promozione di cooperative artigianali e di distribuzione l’Udi gioca un ruolo non secondario, agevolando anche la comprensione da parte femminile dei meccanismi e vantaggi del lavoro e dell’acquisto in cooperativa. L’attivismo politico dei primi mesi del dopoguerra rappresenta un elemento di discontinuità con la società fascista e prefascista, prefigurando l’assegnazione di un ruolo più incisivo alla donna, emblema di resilienza nella dura vita del fronte interno e di resistenza nel sostegno attivo alla lotta partigiana.
La speranza di poter agganciare la ritrovata libertà politica all’emancipazione e all’inclusione sociale, come è ampiamente noto, in Italia (e non solo) si scontra con una idea del lavoro, della militanza, dell’organizzazione da sempre declinata al maschile, pur annoverando autorevoli nomi sul fronte dell’impegno rivendicativo quali Anna Maria Mozzoni, Anna Kuliscioff, Fanny Dal Ry per citare le più note. Questo avviene, al di là delle dichiarazioni programmatiche, anche nelle associazioni popolari, il cui processo di ricostruzione nella società italiana postbellica non è stato ancora sufficientemente vagliato sotto molti aspetti, inclusa la prospettiva di genere.
Ad aiutarci nella complessa lettura del ruolo femminile nella ricostruzione dell’impianto cooperativistico italiano sovviene l’ultimo volume promosso e curato dalla Fondazione Memorie Cooperative, La coop di un altro genere. Lavoro, rappresentazioni, linguaggi e ruoli al femminile, da “La Proletaria” a “Unicoop Tirreno” (1945-2000), curato da Enrico Mannari, direttore scientifico della fondazione. I saggi di Anna Caprarelli, Marco Gualersi, Tito Menzani e Anna Pellegrino aggiungono nuove fonti e interpretazioni alla storia cooperativa e alla gender history, binomio già denso di suggestioni e implicazioni storiografiche che apre a ipotesi di studio e confronto con altri distretti omologhi per composizione sociale e vocazione industriale.
L’impresa di consumo «La Proletaria» che una trentina di persone (tutti rigorosamente uomini) fondava dal notaio negli ultimi giorni di febbraio 1945 nella Piombino siderurgica, ai cooperatori liguri non può che richiamare l’analoga rinascita, tre settimane più tardi, della Cooperativa di consumo di Savona, altro centro portuale e polo industriale dell’Ilva. La coincidenza nell’ingresso della prima donna nel consiglio di amministrazione delle future Unicoop Tirreno e Coop Liguria (24 aprile 1948 per entrambe, in applicazione delle decisioni della Commissione esecutiva della Lega nazionale dello stesso gennaio), ne rafforza la suggestione e l’aspettativa di studi comparati.
I momenti fondativi delle cooperative liguri e tirreniche tra consumatori, se si differenziano nel contesto di maturazione (la permanenza delle truppe di occupazione nel caso savonese, l’avvenuta liberazione sotto la linea gotica), oltre ad essere avvolte dall’inevitabile alone mitico sono accomunati dall’assenza di elementi femminili che, come ben sottolinea nel suo accurato contributo Anna Pellegrino, solo l’attività dell’Udi provvederà a colmare, riaccordando con una investitura politica i legami già esistenti tra cooperativa e territorio. Legami mai del tutto recisi con il passato della Piombino culla del movimento operaio rivendicativo di inizio secolo e dell’opposizione sommersa al regime, ora rafforzati dall’esperienza resistenziale e dalle enormi difficoltà nella ricostruzione.
Le fasi della presenza femminile nella «Proletaria», e le gradazioni della sua intensità, sono soggette a una periodizzazione che tiene conto dell’insieme di elementi di freno e accelerazione in cui essa è maturata, nel passaggio dell’identità di genere tra visione fascista della donna e sua incerta definizione nel quadro politico-sociale del dopoguerra, di cui riflette i rapidi cambiamenti e le contraddizioni: da un primo impegno attivo, corrispondente a quella visibilità conquistata dalle partigiane e dalle attiviste dell’Udi, seguirà un generale ripiegamento negli anni cinquanta e sessanta, sino al nuovo protagonismo femminile dei settanta. Ma il percorso di legittimazione del ruolo femminile all’interno delle organizzazioni democratiche, e delle cooperative in particolare, segue dinamiche e schemi che non sempre ricalcano i paradigmi e la cronologia della storia sociale italiana.
Il ruolo ancillare rispetto alla figura maschile (la staffetta partigiana con la bicicletta al fianco, immancabile icona dell’immaginario ricordata da Pellegrino) è parte integrante di una cultura cui non sfuggiva nemmeno quel testimonial di giustizia sociale quale Sandro Pertini, come ricorda nell’autobiografia Garofani Rossi la socialista Adele Faraggiana: «Per lo più, noi donne affiancavamo l’oratore ufficiale, che era sempre un uomo. Si capiva che (Pertini) era impaziente di prendere la parola, e allora si era ormai abbastanza accorte da concludere l’intervento femminile in pochi minuti». In cooperativa, poi, l’audacia insolente della socialità femminile si moltiplica in un gioco di specchi tra le molteplici attribuzioni (la familiare del socio, l’attivista, la socia, la massaia, la consumatrice, la dirigente), dilatandone le potenzialità di indagine e riflessione.
L’utilizzo delle fonti orali, oltre che del prezioso archivio documentale e fotografico di cui si apprezza la scelta iconografica, restituisce la giusta cornice corale a un percorso umano, ancorché societario e organizzativo. Il che rafforza la convinzione di quanto archivi storici e testimonianze dei cooperatori non solo possano aggiungere segmenti non trascurabili e ipotesi interdisciplinari di ricerca nell’interpretazione della storia di genere, ma siano in grado altresì di irrorare le attuali e future azioni di responsabilità sociale e di relazione con socie e consumatrici da parte delle istituzioni cooperative.
Sebastiano Tringali*
*direttore scientifico Ames
La coop di un altro genere. Lavoro, rappresentazioni, linguaggi e ruoli al femminile, da “La Proletaria” a “Unicoop Tirreno” (1945-2000), a cura di Enrico Mannari, Mondadori, Milano 2016.
La Fondazione Memorie Cooperative nasce dall’iniziativa di Unicoop Tirreno, con lo scopo di conservare e valorizzare il patrimonio documentale, archivistico, fotografico, mediatico, culturale e storico delle cooperative e del movimento cooperativo delle province di Grosseto, Livorno, Lucca, Massa Carrara, Siena e Pisa. www.memoriecooperative.it/.
Il blog Coop al femminile di Memorie Cooperative: http://coopalfemminile.it/