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La rivista online di Legacoop Liguria
Ed. Luglio 2016

In nome del lavoro

Quanti significati reca con sé il termine «lavoro»? Come ne è mutata la percezione? In un’epoca in cui il tema, centrale nell’otto e novecento, è scomparso sostanzialmente dal dibattito pubblico nella sua elaborazione teorica, è un noto drammaturgo e sceneggiatore quale Stefano Massini, teatralmente uso a padroneggiare la parola e a interrogarsi sulla sua forza evocativa, a percorrere l’intrigante e per certi versi sorprendente destino attribuito nel tempo al concetto e ai suoi sinonimi.   

 

Il lavoro, in qualsiasi lingua del ceppo indoeuropeo, è connaturato dalla sua duplice valenza di identificazione sociale del soggetto (individuale o collettivo) mediante la propria attività, e nello stesso comunica l’idea di pena, da sempre associato ad esso: dal latino labor, in francese travail, da cui travaglio, compito spesso gravoso, ma si può risalire alla Genesi biblica («con il sudore del tuo volto mangerai il pane»). Alla dominante presenza quotidiana del lavoro si oppongono concettualmente termini che rimandano a una feria o sospensione da questo, anche se pochi definirebbero vacanza (assenza di) la mancanza di occupazione dettata da esubero o cronica disoccupazione.

 

Si tratta di un termine quindi complesso, che rimanda a un contesto contraddittorio, mutevole a seconda delle culture e dello spirito del tempo. Ma caratterizzato, nella sua storia, dalla volontà dell’uomo di unire tale evidente e materiale correlazione con altre valenze di segno positivo, atte a porre la fatica dell’uomo nella sua esatta natura, gravida di conseguenze e benefici per sé, la propria famiglia e, cosa più importante, la società in cui opera, in grado quindi di determinare e condizionare la propria collocazione in essa.

 

Nell’agile testo scorriamo le tappe più significative dell’evoluzione del concetto: dall’atto di creazione volontaria degli antichi artefici e artieri, che nelle arti e corporazioni medievali avevano codificato i mestieri dando avvio alla lunga tradizione di artigianato. generatrice dell’epopea del saper fare; passando attraverso l’etica del lavoro animatrice dell’attivismo mercantile, su cui si consuma la frattura tra cattolici e protestanti all’origine, per Max Weber, della moderna espansione capitalistica; sino alla centralità della fabbrica e dell’operaio che accompagna le rivoluzioni (e le relazioni) industriali del recente periodo; infine valore riconosciuto quale aspirazione e diritto collettivi, sancito nel primo articolo della Costituzione repubblicana e iscritto come dovere morale nell’educazione della generazione di chi scrive.

 

Ma era il secolo del lavoro, come qualche anno fa il sociologo Aris Accornero titolava un suo celebre saggio: ossia il lungo periodo iniziato a metà dell’ottocento che, con la seconda industrializzazione, ha generato nel secolo successivo una classe lavoratrice resa omogenea dall’atto di vivere del proprio salario (dalla misura di sale che accompagnava la paga del miles romano) e dalla programmazione della propria esistenza sulle lancette di una condizione professionale dalla quale si sarebbe usciti, nella migliore delle ipotesi,  vivi e con la prospettiva di essere assunti stabilmente in carico dal welfare professionale o sociale (come nelle società operaie e cooperative), oppure da quello nazionale dal momento dell’istituzione dello stato sociale. Tale aspettativa, come è noto, ha smesso di essere propria a quella che non rappresenta ora neppure più una classe lavoratrice, essendo il concetto stesso tramontato di fronte alla impossibilità di adottare le griglie interpretative di un tempo alle nuove professioni, alle nuove relazioni tra esse e alle diverse percezioni che ne accompagnano l’odierno uso.

 

Nello stesso tempo, si è esaurito anche il quadro valoriale e ideale di riferimento: il sogno di ogni italiano non è più l’investimento nel proprio futuro lavorativo. Con una efficace suggestione, l’autore rievoca l’uso di indicare la professione nella vecchia schedina del Totocalcio, e le interviste ai fortunati vincitori, che alla domanda su come avrebbero impiegato il denaro della vincita dispiegavano immancabilmente il proprio sogno di affrancamento dal lavoro salariato, mettendosi in proprio e recuperando così quello status artigianale perduto con l’urbanizzazione. Realizzandosi come persona attraverso l’elevazione professionale e quindi sociale, non certo abbandonando la dimensione lavorativa, come invece suggeriscono i nomi delle moderne lotterie istantanee, o come traspare dalle aspirazioni dei concorrenti e dagli stessi premi in palio dei reality show televisivi.

 

Termometro simbolico dei grandi mutamenti sul fronte geopolitico e su quello tecnologico, il lavoro ha perso, pezzo dopo pezzo, ogni vestigia della positività di cui si era caricato in precedenza. E non è arbitrario individuare nella attuale deriva semantica del termine la più evidente tra le trasformazioni che il lemma attraversa. Non a caso, avverte Massini, l’affermazione sempre più marcata della terminologia anglosassone (job, work, workers e loro declinazioni, la cui summa è il free-lance, testualmente il mercenario che mette la propria lancia a disposizione del miglior offerente) concorre alla sua spersonalizzazione, coerentemente con la nuova collocazione in una prospettiva globalizzata e accentuando i caratteri negativi e dolorosi che rendono il lavoro, inteso nel suo odierno sviluppo, ora non più sostenibile.

 

Sebastiano Tringali

 

Stefano Massini, Lavoro, Il Mulino 2016, pp.131, € 12,00.